HOLOGRAMI STRAHA/OLOGRAMMI DI PAURA
è il romanzo d’esordio di Slavenka Drakulić pubblicato nel 1987, un’opera di autofinzione in cui l’autrice evoca l’esperienza personale della malattia.
La voce narrante è una giovane donna affetta da una disfunzione renale, una malattia dalla quale si può “guarire” solo sottoponendosi al trapianto del rene di un donatore, un’operazione molto difficile e dall’esito incerto.
La paura e l’incertezza sono in effetti i sentimenti dominanti di questo romanzo tutto incentrato sul complesso rapporto fra il corpo e la psiche della protagonista.
Ologrammi di paura può essere letto come un’opera fondamentale dell’autrice in quanto il tema del corpo femminile esposto a traumi quali malattia e violenza diventerà il leitmotiv di diversi suoi libri tra cui Il letto di Frida, Come se io non ci fossi, L’accusata.
Il romanzo, accolto con grande favore dalla critica, è stato pubblicato in diversi Paesi, ma non è mai stato tradotto in Italia. Qui di seguito proponiamo la traduzione in italiano di un brano:
Quando ero molto giovane, mi davano fastidio gli sguardi dei passanti. Mi vestivo di nero, portavo pantaloni e capelli corti. Non mi truccavo di nascosto con il rossetto o la matita per gli occhi di mia madre. Non mi provavo la sua cipria davanti allo specchio. Sapevo che non sarei mai stata bella come lei, la sua bellezza era per me irraggiungibile. Mi offriva i suoi vestiti, una camicia gialla di organza, una gonna a quadretti. Per il Capodanno del 1965 mi prestò un abito di tulle nero con delle palline argentate e un’ampia sottoveste di seta frusciante. Lo indossai. Mi misi davanti allo specchio. Le spalline caddero scoprendo le spalle ossute. Le mie braccia erano troppo lunghe e nodose, il girovita largo e le gambe corte. Il vestito con le sue pieghe irregolari pendeva come uno straccio. Provai subito invidia – quel vestito addosso a mia madre diventava aderente, sfavillante, vivo – poi disprezzo verso quel mio corpo goffo che mai più avrebbe indossato abiti da sera. Mi vennero i crampi allo stomaco, rinunciai all’abito di mia madre e alla festa di Capodanno. Mi misi a letto, tutta la notte ascoltai voci, musica, canti, ma i crampi non cessarono. Crebbi con quel disprezzo silenzioso, lontana dai propri piedi e fianchi, dai collant e reggiseni, dai profumi, dalla seta e dalle labbra tinte di rosso. Era all’epoca che iniziai a esercitarmi nella rinuncia. Come se avessi intuito. Avevo creato una separazione, tratto una linea di demarcazione tra il visibile e l’invisibile optando per quello che non si poteva abbracciare con lo sguardo. Avevo tradito il mio corpo. Molto tempo dopo il corpo ha tradito me.
Il corpo ricorda tutto.
Il disprezzo che per anni ho coltivato come un’intima difesa si rivelò utile quando la malattia iniziò ad attaccarmi. Non avrei potuto sopportare tutti i mutamenti, soffrire la magrezza, la stanchezza, le infiammazioni, i dolori alla schiena, le nausee. Così invece, tranne nei momenti di maggiore dolore, mi comportavo come se tutto ciò non succedesse a me. Non volevo farci attenzione. Non volevo parlarne.
Più la malattia mi attaccava, più dedicavo attenzione a me stessa. Iniziai a truccarmi. Con il passare del tempo il truccarsi era diventato un modo per ingannare la malattia, una sorta di mascheramento che mi faceva stare bene: accidenti lei sta così bene, non si direbbe che è malata. Al mattino mi truccavo con cura: mi mettevo la crema, la cipria, la matita, l’ombretto, il mascara. Coprivo le tracce della dialisi del giorno precedente, il gonfiore del viso, le rughe precoci, il rossore degli occhi. Con la cipria nascondevo le occhiaie, il pallore delle guance, con il rossetto rosso le labbra esangui. Mi truccavo finché non raggiungevo l’aspetto di una giovane bella e spensierata che si muove con leggerezza, come se fosse su una passarella…
Sopra la maschera della morte, ne disegnavo un’altra a colori. Era un modo per respingere la morte lontano da me, per raggirarla, ammaliarla, stregarla, posticiparla. Credevo di essere io a condurre il gioco, ma era un’illusione.
Il mio viso era una maschera colorata. Il viso sul quale inscrivevo i segni segreti era il mio talismano. Soltanto ora che l’ho perso so che era mio e accetto a fatica la sua trasformazione in qualcosa di sconosciuto. In un’altra donna.