KINO BALKAN
Il vecchio si ammalò giovane, e allora quelli del cementificio gli diedero un lavoro nel cinema della fabbrica. Il cinema si chiamava Kino Balkan. È chiuso ormai da molto tempo.
Staccava i biglietti, attaccava le locandine, trasportava le pellicole cinematografiche e proiettava film con zio Braco. Furono anni meravigliosi per i suoi figli, gli ultimi anni di quel cinema, poco prima della guerra: tre volte a settimana. Dopo la matinée rimanevo seduta con il brusio del proiettore nella saletta, sfogliavo i cataloghi dei film che sarebbero stati proietatti o leggevo di quelli che non lo sarebbero mai stati.
Finito lo spettacolo uscivamo nella notte piena di stelle ficcate nella camicia nera dello sceriffo celeste, nella giustizia al di sopra dei capannoni tubolari e panciuti con le ciminiere biancorosse simili a lollipop, e camminavamo sul tappeto di polvere da cemento che si stendeva fino al lungomare e oltre, lontano nei fondali. Ricordo che in mezzo alla polvere giacevano piccole e grandi sfere di metallo che servivano per la macinazione della marna, e cuscinetti a sfere che usavamo per i nostri carretti.
Uscivamo dal vecchio Kino Balkan con il rumore delle sedie di legno che si chiudevano dietro di noi come se passassimo da un film all’altro.
Il tutto poi si concludeva con lo spugnoso e attutito suono della chiusura della grande porta del cinema, quando mio padre girava la chiave e la infilava in una tasca interna, come fosse un custode di segreti.
In seguito zio Braco aprì la videoteca Braco & co dove mio padre fino alla fine della sua breve vita fece da co e lavorò al banco.
Una volta gli chiesi se avremmo avuto una nostra videoteca.
“Come si chiamerà?” insistevo spingendo la mia mano nella sua.
“Almeria”, disse disegnando con la mano una scritta invisibile e strizzò l’occhio.
In quegli anni la mia eccitazione veniva da un altro mondo e continuava in questo, altrettanto eccitante.
Una vita lungometraggio, un film che dura tutta la vita in cui i protagonisti migliori vivono tanto quanto basta per recitare un episodio, per piacerti.
Nel sogno vedo mio padre tossire, come faceva veramente. I suoi polmoni sono ricoperti di peletti argentati di amianto. Vedo tutto quello che è importante vedere, solo che è difficile ripeterlo da svegli.
“Ehi, come mai sei qui?” gli domando in quel sogno in cui compare accompagnato da un uccello.
Lui sorride, sposta le dita dietro le spalle, strizza l’occhio e dice: “Bang, bang!”
“Bang, bang”, ripete il pappagallo sulle sue spalle. “Bang, bang”.
Brano tratto dal romanzo Adio Kauboju/Addio Cowboy di Olja Savičević Ivančević (inedito in Italia), traduzione di Estera Miočić.
Il libro è stato già pubblicato da Istros Book (Regno Unito), da Baile del Sol (Spagna) e da Voland & Quist (Germania).